Alice ci fa sognare con il racconto della sua esperienza a Populonia e Buca delle Fate in occasione delle Invasioni Digitali.
È una giornata ventosa e tiepida di fine aprile, il cielo si alterna fra le nuvole e l’azzurro. Tempo perfetto per passeggiare. E non c’è luogo più suggestivo del promontorio di Baratti, con la sua esplosione verdeggiante di macchia mediterranea e le indelebili tracce storiche, che da ogni parte, dalla battigia al folto del bosco, ti assalgono con la loro maestosità.
Il percorso scelto è relativamente breve (20 minuti solo andata), ma intenso: parte dal Reciso, a metà strada fra il golfo e la città alta (Populonia) e ha come meta la famosa Buca delle Fate.
Come si può resistere alla promessa della magia?!
Si comincia a camminare e il profumo delle erbe selvatiche è così intenso da stordire; è un odore sincero, che apre ogni singolo alveolo dei polmoni: ho la sensazione che il bosco mi stia abbracciando e basta poco per sentirmi parte di questo mondo.
Condividere questa esperienza con una guida esperta permette di scoprire un sacco di cose su un territorio – quello in cui ho scelto di vivere da poco – che ha molto da raccontare.
Sapevate che il mirto viene anche chiamato mortella e sembra abbia dato il nome alla mortadella? I Romani infatti ne usavano le bacche per profumare insaccati e carni varie.

Ma il bosco custodisce ben altri segreti. All’improvviso ci si trova al cospetto di antichissime tombe etrusche ipogee: sebbene la foresta le abbia ormai fagocitate da secoli, è inconfondibile la mano dell’uomo. Colpisce forte la sensazione di trovarsi davanti al segno concreto della Storia che non si ferma mai, ma come un filo indistruttibile unisce ogni generazione, anche le più lontane.
Ciò che spesso affascina di più è scoprire l’ingegno di popoli così remoti che, pur non avendo mezzi tecnologici, mostravano una grande abilità ingegneristica. Per le loro costruzioni gli Etruschi utilizzavano la pietra panchina, una arenaria tipica della Toscana costituita da sabbie grossolane cementate e che ha la caratteristica di spezzarsi in blocchi abbastanza definiti e squadrati.
Finita la “moda” delle tombe a tumulo e di quelle a tempietto, nel VI°secolo a.c. gli Etruschi cominciarono a costruire tombe a camera ipogea sfruttando i fronti di cava. Anche qui, in modo simile alla tradizione egizia, i morti venivano tumulati insieme ai loro beni. Purtroppo gli scavi etruschi di quest’area hanno subito numerosi furti lasciando quindi pochissimi reperti alla curiosità di noi moderni. Cambiano i tempi ma l’uomo rimane sempre uguale.

Il cammino prosegue in modo tranquillo, sempre accompagnato dal profumo di primavera, fino a quando, inaspettato e bellissimo si presenta il mare.
Ecco finalmente Buca delle fate, una piccola cala che si potrebbe definire “bifronte”: su un versante infatti la macchia mediterranea arriva fin quasi alla battigia, fermandosi su una piccola spiaggetta di roccia; l’altro invece è una brulla e maestosa scogliera a picco, in cima alla quale si è creata una terrazza naturale da dove ammirare il blu e il profilo dell’Elba, che in questa giornata umida di scirocco, appare quasi sospesa sull’acqua, come un sogno.
Si rimane un attimo incantati dalla vista, ma poi la curiosità prende il sopravvento: da dove deriva il nome di questo luogo?

Narravano i pescatori che queste acque fossero abitate da sirene. Acque pericolosissime, da evitare. Ma Valerio, che era coraggioso, ci si avventurò e fu rapito dalle fate. La sua fidanzata, Mariuccia, non si dava pace e ogni giorno andava sugli scogli a piangere invocando il suo amore.
Un delfino, vedendo quella scena ripetersi, si impietosì e prendendo una delle lacrime della giovane la trasformò in una perla. La portò alle sirene proponendo uno scambio: il prezioso gioiello in cambio di Valerio. I due innamorati così si riunirono con immensa gioia; intanto le sirene, non contente della sola perla, volevano avere anche una stella, la più luminosa che c’era in cielo.
Il dio Nettuno, dopo la loro insistenza, decise di prenderla: cadendo si frantumò in due creando quelli che oggi sono conosciuti come il promontorio dello Stellino e la Stella.
La spiegazione scientifica è meno romantica, quindi meglio tralasciarla.

Sarà per la magia che già si respira, ma questo sembra il luogo adatto per creare una bellissima sinergia fra arte e natura: Irene, del Progetto NerosuBianco, legge per tutti un racconto di una sua allieva del corso di scrittura. È un momento suggestivo, in cui le parole si fondono con il paesaggio creando un’alchimia unica.
Dispiace quasi riprendere la via del ritorno, ma su a Populonia ci aspettano i cavalieri di Montecoronato e una visita alla torre.

Dalla sua cima si domina tutto il paesaggio: con il vento sulla faccia, lo sguardo spazia dal golfo di Baratti a quello di Follonica, arriva a vedere persino San Vincenzo; ci si sente i re del mondo.
Per fortuna ci sono le guide a tenermi coi piedi per terra, raccontandomi le vicende di quel borgo, Populonia, unico insediamento etrusco sul mare, che ne avevano fatto un centro strategico per la produzione del ferro; venne in seguito scelto da importanti personalità romane come loro dimora per perdere poi rapidamente il suo prestigio dopo il Rinascimento.

E ora non rimane che un piccolo, caratteristico borgo che però non ha perso nulla del suo antico fascino.
La giornata si conclude con un tramonto caldo, il cielo che finalmente ha ritrovato il suo azzurro e io che sto imparando a conoscere le strade su cui cammino.
Un’esperienza che consiglio a tutti, abitanti e non della zona, per riscoprire radici comuni e godere di una natura magnifica.
In tempi di crisi cosa c’è di meglio di uno svago gratuito e per di più rigenerante?
Racconto di Alice Scuderi